giovedì 11 febbraio 2016

Le Benevole, l’olocausto con gli occhi dell’assassino

Ogni anno si rinnova, inesorabilmente, ilGiorno della Memoria dedicato alle vittime dei campi di sterminio costruiti nel corso del secondo conflitto mondiale e utilizzati per perseguire la pulizia etnica messa in piedi dal terzo Reich. Nel 2016 ricorre il settantunesimo anniversario della liberazione dei campi e, come ogni anno, si ripete la volontà di ricordare quanto accaduto.

Inutile nominare per l’ennesima volta le opere simbolo di questo oscuro periodo della nostra storia contemporanea, durante il quale, senza distinzioni, chiunque varcava la soglia di filo spinato quasi certamente era costretto ad abbandonare, lì dentro, la propria vita. Carlo De Matteis, ex docente di letteratura italiana presso l’Università dell’Aquila, in un suo studio dal titolo Dire L’indicibile, tratta con attenzione, i documenti letterari che hanno permesso al mondo di conoscere le atrocità operate in quei luoghi.

Il professore parla e cita numerose opere partendo da Se questo è un uomo di Primo Levi, passando per La notte di Elie Wiesel ed Essere senza destino di Imre Kertész fino a giungere a George Semprùn che ha raccontato la sua esperienza nel romanzo La scrittura o la vita. Il percorso di De Matteis è netto ma non disdegna anche le poche testimonianze femminili del periodo nominando e esaminando le opere di Edith Bruck, Zdena Berger e Charlotte Delbo. Tuttavia, in questo caso, si è teso verso la testimonianza diretta dei sopravvissuti prendendo in considerazione sia opere edite immediatamente dopo l’esperienza nel campo che altre date in pasto alla stampa solo diverso tempo dopo. La necessità di pubblicare gli orrori di una vita di campo viene giustificata con il bisogno di liberarsi di un peso che impedisce a qualunque superstite di vivere con tranquillità e sicurezza. Non a caso, decenni dopo la deportazione, gli effetti di questa esperienza spinge un personaggio come Primo Levi al suicidio. Lo stesso chimico italiano durante la stesura di Se questo è un uomo si chiede quale sia o se esista un idioma adatto a raccontare quanta brutalità fosse messa in atto in quel periodo. Allo stesso modo Kértez non ritiene concepibile una lingua propria ed esclusiva dell’Olocausto. Anche se le basi del ragionamento sono sempre state queste, il rovello e il paradosso di voler dire l’indicibile è proprio di ogni sopravvissuto senza eccezioni.

Fino ad ora si sono prese in considerazione delle testimonianze dirette del lager ma, quello che può apparire interessante, è anche provare a vedere la situazione da un punto di vista esterno e differente. Un romanzo di questo tipo è stato pubblicato nel 2006 dallo scrittore Jonathan Littelldal titolo Le Benevole. Questa opera è la prima dello scrittore americano, poi naturalizzato francese, che nasce nel 1967 a New York da una famiglia di origine ebraica. Ovviamente non ha vissuto le atrocità della guerra che ha colpito il suo ‘popolo’ ma, paradossalmente, riesce a trascinare il lettore in un'epoca che non appartiene ne allo scrittore ne tantomeno al suo pubblico. Quello che più appare accattivante, a dispetto della lunghezza dell’opera che conta circa 950 pagine, è il metodo di narrazione. Non è la ‘semplice’ testimonianza in prima persona ma è l’indossare, da parte di un ebreo, i panni del suo carnefice. Paradossalmente Littell mette in scena la vita di un ufficiale delle SS di nome Maximilien Aue. Il protagonista nasce in Alsazia da padre tedesco e madre francese e gestisce una fabbrica di merletti in modo efficiente. Il suo ingresso nel corpo di punta del Reich non è fortuito o casuale visto che si arruola per un motivo ben preciso: evitare l'accusa di omosessualità. Tuttavia la sua efficienza si riflette anche nel lavoro ‘sporco’ delle SS che dal ’41 portano avanti la pulizia etnica. Nel corso del conflitto Max viene spostato dal fronte orientale al Caucaso e, solo in seguito, a Stalingrado dove sopravvive miracolosamente ad una grave ferita. Al rientro a Berlino comincia il suo lavoro d’ufficio e sul finire della guerra sfrutta il suo bilinguismo per poter sopravvivere.

Questa è brevemente la trama ma quello che appare da subito rilevante è la voglia di vedere qualcosa non dagli occhi della vittima bensì attraverso quelli del carnefice. Paradossalmente è l’apparente vincitore, che poi si trasformerà in vinto, a narrare le vicende. Nella grande Storia (come la definisce la Morante) le vicissitudini di un singolo ufficiale prendono piede e scoprono il retro della pagina più oscura della nostra epoca. Molti sarebbero i passi da poter citare ma di certo una cosa che non si è mai notata nella lettura della letteratura della Shoah è una distinzione tra i caratteri delle SS che agli occhi dei vari Levi, Sémprun e Wiesel appaiono sempre violenti e senza pietà.

Littell mette in scena, al contrario, una classificazione dei soldati rendendo noto che non tutti erano spietati e crudeli. Nel corso del romanzo si legge infatti:

[…] potevo distinguere tre tipi di temperamenti fra i miei colleghi. Anzitutto c’erano quelli che, pur cercando di nasconderlo, uccidevano con voluttà; […] erano delinquenti che avevano scoperto di esserlo grazie alla guerra. Poi c’erano quelli che erano disgustati e che uccidevano per dovere, vincendo la ripugnanza, per amore dell’ordine. Infine c’erano quelli che consideravano gli ebrei degli animali e li uccidevano come un macellaio sgozza una vacca, lavoro divertente o faticoso a seconda dell’umore o dello stato d’animo. […].[1]

Il temperamento del protagonista è complesso, la sua psicologia varia nel corso del romanzo perseguendo una sorta di evoluzione che porta Max Aue a prendere sempre maggiore consapevolezza delle proprie colpe e dei propri atteggiamenti. Il punto di vista resta costantemente su di un livello terribile e ripugnante attraverso attente descrizioni di ambienti e percezioni sensoriali che rappresentano, con disarmante acume e precisione, tutto ciò che viene filtrato dagli occhi dell’ufficiale. Occhi che talvolta si rifiutano di vedere quello che il braccio fa oppure osservano con curiosità quasi sadica ciò che è la conclusione dell’ordine da eseguire.

In un periodo oscuro Aue fa parte della Storia con la sua storia muovendosi e rappresentando la parte più nera di ognuno di noi che, in base alle situazioni, può emergere senza apparente inibizione. Con questo lascio ai lettori il piacere della lettura di questo corposo e splendido romanzo che si articola come un’opera teatrale, dando titoli come Toccata o Minuetto ai diversi capitoli che parallelamente indicano i movimenti nell’animo del protagonista.



[1] J. Littell, Le Benevole, Einaudi, Torino, 2006, p.105.

Nessun commento:

Posta un commento